venerdì 21 ottobre 2011

Una di quelle notti.

Carissimi,
È una di quelle notti. Di quelle in cui non riesco ad andare a letto, anche se ormai sono 2 ore che tutto tace ed il buio è rotto solo dall'elettrico baluginare del display del cellulare. Di quelle notti in cui vorrei accendere lo stereo (perché possiedo ancora uno di questi preistorici utensili), alzare il volume tanto da impedirmi di pensare (come dice il Boss in "Something In The Night") ed abbandonarmi alla tempesta che sta per scatenarsi.
È una di quelle notti in cui vorrei essere su un palco e suonare tanto da sfinirmi, finire con i polpastrelli in fiamme, il polso insensibile e la gola straziata per quanto ho urlato. Una di quelle notti in cui mi piacerebbe essere dietro il volante e srotolare un nastro di asfalto infinito, senza una meta precisa; forse solo per arrivare davanti alla casa di un vecchio amico che tempo fa ha deciso di chiudere con tutti coloro che gli ricordavano un passato che non sentiva più suo. Così, solo per abbracciarlo e chiedergli come va. Solo perché ogni tanto fa bene sapere che là fuori, lontano non solo nello spazio ma anche nel tempo, c'è chi sa dove affondano le tue radici; ciò che ti ha reso così come sei; ciò che Mi ha reso così come Sono,
È una di quelle notti in cui vorrei ancora essere in vasca. Salire sul blocco. Sentire la plastica blu piegarsi e gemere sotto il mio peso, mentre mi chino per afferrare l'acciaio prima dello slancio. Vivere l'effimera ebbrezza dell'istante in cui stai volando, non più terra e non ancora acqua. E poi l'immersione, la pressione che si fa tuono nelle orecchie, mentre un meccanismo ormai naturale spinge aria fuori dai polmoni; le gambe attaccano la loro danza rituale; le braccia serrate a cercare un assetto anfibio; e finalmente il miracolo del corpo che rompe la superficie, la mano che affonda a cercare l'appoggio, il busto che ruota preciso ad accompagnare la bocca a cercare nuova aria da consumare, in un ciclo continuo... Come le onde del mare.
Anni fa avrei anche scritto che è una di quelle notti in cui vorrei andare a letto stanco. Ma felice. Perché la mia famiglia dorme con me. Anni fa non sapevo che avrei potuto vivere questo istante. E dire che... Sì. È quella notte, questa notte.
Vi abbraccio.

Corrado.

P.S.: A casa, dal cellulare, ore 2:09.

giovedì 20 ottobre 2011

Una Vita Da Mediano

Carissimi,
Non c'è bisogno di presentazioni; il titolo cita l'ultima bella canzone scritta da Ligabue. Sì, lo so. In giro è pieno di fans pronti ad accoltellarmi per questa affermazione. Ma, come dico spesso, c'è differenza tra "saper fare" un bel disco (usando l'esperienza ed il mestiere), e "fare" un grande disco (usando l'ispirazione ed il talento). Succede a tutti gli artisti; anche ai poeti. Benedetto Croce inseriva solo l'Inferno di Dante nella categoria della poesia pura, figuriamoci. Ovviamente, andando a memoria, posso sbagliarmi.
Ma proprio di memoria vorrei parlare. Ieri sera me ne stavo tranquillo in segreteria ad organizzare il vostro futuro sportivo (senza esagerare, eh), quando dalla radio è partito proprio il pezzo citato nel titolo. La musica, come gli odori (ricordate la Madeleine di Proust all'inizio di "Dalla Parte di Swan"?), ha questo straordinario e al tempo stesso ignobile potere di portarti a spasso nel tempo. Ed io, di colpo, mi sono ritrovato a pensare a quando ascoltai questa canzone nel 1999. Stavamo partendo per il ritiro pre-campionato con la squadra di basket in cui giocavo allora. Sarebbe stato il nostro primo campionato in serie D.
Per me, che arrivavo dal nuoto e non avevo un passato giovanile nella pallacanestro, quelle parole furono una folgorazione. Insomma. Era vero. Avevo cominciato sui campetti solo 3 anni prima. Ma faticando ed allenandomi ero riuscito a guadagnare il mio posto in squadra e nel quintetto base, grazie anche all'immenso fiato che la mia vita precedente da nuotatore mi aveva donato. Ed era tutto vero. Giocavo in un ruolo dove spesso si ingaggiano battaglie fisiche con giocatori alti e pesanti. Ma da nessuna di quelle battaglie, anche quando uscivamo sconfitti, mi ero tirato indietro. Questa per me era l'essenza del gioco di squadra. Uscire dal campo con l'idea che gli altri avessero vinto perché più forti.
Poi, crescendo, mi sono accorto che forse il campo era un po' più grande di quello che credevo. E che di mediani, in fondo, ce n'erano ovunque. Perché devi riuscire a finire il lavoro che ti hanno richiesto (e che danno per scontato che tu farai, e magari senza ringraziarti o pagandoti in ritardo); perché devi arrivare in tempo dall'altra parte della città sapendo che la tua assenza può causare problemi ad altri; ma soprattutto perché senza gli altri mediani come te, alla fine, solo con i centravanti è difficile vincere una partita.
Ma, per fortuna, ogni tanto, le nostre vittorie le portiamo a casa.
Vi abbraccio.

P.S.: In vasca al Gerbido, ore 13:02 e in ritardo per entrare in sala pesi!!!!